Abbonamenti: tutti li vogliono, ma nessuno è d’accordo sul funzionamento
Gli abbonamenti sono davvero il futuro?
Il business del settore gaming sta migrando sempre di più verso i piani in abbonamento. Xbox Game Pass e il prossimo PS Plus ne sono un esempio, ma pare che anche Amazon adotterà un simile modello.
Nonostante il consenso sul passaggio agli abbonamenti, le società sembrerebbero non essersi ancora messe d’accordo sullo standard che un simile business dovrebbe avere. A creare disaccordo è soprattutto il ruolo degli acquisti anticipati, con i produttori di giochi che non vogliono certo ritrovarsi ad essere dei meri fornitori passivi di Sony e Microsoft.
Anche se i servizi in abbonamento sono il business del futuro, nessuno conosce ancora il modo in cui quest’ultimi verranno messi a punto e come cambieranno la vita di ciascuna delle parti coinvolte.
Le aree in cui il passaggio alla digitalizzazione e ai piani in abbonamento sta avendo un impatto negativo sono sempre di più, negozi di videogame in primis. Oltre tutto, perché affrettarsi a preordinare un titolo in uscita quando si può giocare comodamente la versione di prova gratuita e, eventualmente, prendersi il lusso di cambiare idea?
L’avvento dei piani in abbonamento potrebbe inoltre introdurre alcune modifiche potenzialmente sgradite al modo in cui gli sviluppatori sono incentivati a creare nuovi giochi. Più che dirci qualcosa sulla qualità effettiva del gioco infatti, i tanto sbandierati indici di download sono solo un parametro dell’efficace commercializzazione di un titolo. Bastano un buon trailer, una descrizione avvincente e un nome interessante.
Viceversa, è la qualità del tempo di gioco (espressa nelle ore, minuti e secondi effettivamente giocati dagli utenti ad un determinato titolo) a incidere sulla volontà o meno degli abbonati di rinnovare il proprio piano di abbonamento. Detto altrimenti, alla fine dei conti, non sarà la semplice quantità di download a decretare l’appeal di un gioco, né tanto meno a convincere un utente a prolungare il servizio in abbonamento alla sua scadenza.
Probabilmente, stiamo per vedere emergere una controversia non dappoco sul valore effettivo di un download o del tempo giocato a un titolo. Quanti dei download registrati dalle piattaforme saranno dovuti all’offerta gratuita del gioco? E quanti altri in base alla sua intrinseca qualità?
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Se ci pensate, è lo stesso paradosso della pirateria digitale emerso negli anni ’90. Secondo le società dei media, ogni download pirata di un gioco, film o album equivaleva a una cantonata a ribasso sul prezzo di vendita consigliato (il cosiddetto RRP). Ma quanti tra tutti coloro che si sono procurati la copia pirata avrebbero comunque acquistato il contenuto in assenza della versione di contrabbando?
È una domanda che non troverà facilmente una risposta chiara e definitiva. Tuttavia, il problema rimane. Se i produttori inizieranno a sentirsi sempre più “sfruttati” dalla loro partecipazione ai servizi in abbonamento (se i rapporti commerciali stabiliti con Sony e Microsoft saranno percepiti come non equi), il rischio è che tali servizi si ridurranno presto a una libreria comprendente una manciata di giochi proprietari, alcuni titoli di catalogo e qualche altro videogame obsoleto.
Oltre a ritirare i loro giochi recenti, i produttori potrebbero nel tempo finire per “ricattare” le piattaforme richiedendo loro quote commerciali sempre più ingenti. L’esempio musicale di Spotify e Apple Music ci insegna però che questi tira e molla non fanno bene né agli artisti né agli editori: nonostante quest’ultimi lamentino le misere quote di compartecipazione ricevute dai colossi della musica in streaming, sanno benissimo che tirarsene fuori porterebbe a risultati persino peggiori di quelli attuali (via gamesindustry).
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È una situazione che ci auguriamo non si ripeta anche nell’industria dei videogame, per quanto tutto questo sembri ogni giorno più inevitabile.