Clair Obscur: Expedition 33 - La voce della rivoluzione parla francese

Clair Obscure Expedition 33
(Immagine:: Kepler Interactive)

“L’Oracolo mi ha detto che il Game of the Year 2025 sarà realizzato da uno studio che avrà trovato la formula giusta per salire qui sul palco. È stupidamente semplice, ma capita che qualcuno ci si perda. Uno studio che ha realizzato un gioco che volevano giocare per primi loro, che lo hanno creato perché non era mai stato fatto prima. Non lo hanno fatto per incrementare la loro fetta di mercato, né per trasformarlo in un brand senz’anima. Non per raggiungere obiettivi arbitrari imposti da chi guarda i grafici e non i giochi. Soprattutto, non lo hanno fatto con la paura addosso. Hanno creato un gioco con amore, con coraggio, con una visione. E i loro amministratori li hanno lasciati fare, perché sapevano che il rispetto per chi crea e per chi gioca porta risultati veri.”

Swen Vincke, fondatore e direttore creativo di Larian Studios

A pronunciare queste parole non è stato un attivista o un nostalgico del passato, ma Swen Vincke, fondatore e direttore creativo di Larian Studios, durante il suo discorso ai BAFTA Games Awards 2024, ritirando il premio per Baldur’s Gate 3. Non era una celebrazione fine a se stessa, ma un atto di denuncia elegante e feroce contro lo stato attuale dell’industria videoludica. Un’industria che, come Vincke ha voluto sottolineare, troppo spesso ha smarrito la propria bussola in nome dell’efficienza, del controllo, del marketing. E le sue parole oggi risuonano ancora più forti guardando l’uscita di un titolo come Clair Obscur: Expedition 33.

Perché Expedition 33 non è solo un videogioco. È la dimostrazione pratica che quel tipo di visione (quella che mette il gioco e chi lo crea al centro) è ancora possibile. In un mare di tripla A senz’anima, realizzati per massimizzare il coinvolgimento orario e spremere il portafoglio, il titolo di Sandfall Interactive sembra arrivare da un’altra epoca. O meglio: da quell’epoca che Swen Vincke ha appena descritto sul palco, quella che tanti studi hanno dimenticato di appartenere.

a screenshot from Clair Obscur: Expedition 33

(Image credit: Sandfall Interative)

La standardizzazione del videogioco moderno

Il problema è che quella semplicità di cui parlava Vincke - quel “fare un gioco perché si ha qualcosa da dire” - oggi sembra un’eresia. L’industria videoludica, soprattutto quella che lavora con budget a otto zeri, si è infilata in un vicolo cieco fatto di modelli ripetuti all’infinito, paure gestionali e totale assenza di rischio. Ogni nuova IP deve somigliare a una vecchia IP. Ogni GDR deve diventare un action open world con alberi delle abilità, punti esperienza, loot rari e mappe piene di icone. Ogni prodotto deve servire contemporaneamente come gioco, piattaforma, brand, contenitore e servizio.

Ubisoft è l’esempio più facile: ha preso Assassin’s Creed - che all’inizio era una serie con una visione chiara - e lo ha trasformato in una fabbrica di giochi enormi, intercambiabili, costruiti intorno a strutture identiche. Ogni tanto cambia l’ambientazione, ogni tanto la barra della stamina, ma la struttura resta quella. Square Enix, un tempo simbolo dell’invenzione GDR, oggi appare più interessata a rincorrere trend di mercato e packaging estetico che a lasciare spazio a idee vere. Final Fantasy XVI è l’emblema di questa deriva: un gioco che guarda più a Devil May Cry che ai suoi predecessori, incapace di scegliere cosa vuole essere se non “moderno”. Perfino Bioware – che con Mass Effect e Dragon Age aveva trovato un’identità unica – è finita nel limbo dell’incertezza, travolta da progetti abortiti, cambi di direzione, live service falliti.

Eppure, proprio mentre i grandi arrancano, capita che un piccolo studio sconosciuto faccia il miracolo. È il caso di Sandfall Interactive. Con Clair Obscur: Expedition 33, un gruppo di sviluppatori al primo progetto ha avuto il coraggio di dire: “Facciamolo come lo vorremmo noi. Facciamolo perché nessuno lo sta facendo più.” Il risultato? Un GDR a turni che non copia Persona o Final Fantasy, ma li rielabora. Una direzione artistica che non strizza l’occhio all’algoritmo di TikTok, ma parla la lingua dei pittori simbolisti. Un mondo che non ha bisogno di essere enorme, ma di avere qualcosa da raccontare.

E tutto questo non perché ci sia un piano industriale geniale dietro. Ma perché c’è una visione. E quella visione, oggi, è già un atto di ribellione.

Clair Obscur: Expedition 33

(Image credit: Kepler Interactive)

Il coraggio dei piccoli, la paura dei colossi

Mentre le grandi produzioni si preoccupano di piacere a tutti, di seguire i trend, di integrare funzionalità pensate per aumentare l’engagement più che il coinvolgimento, ci sono studi più piccoli che ancora credono nel videogioco come atto creativo. Clair Obscur: Expedition 33 nasce da questo spirito. Un’opera prima che osa abbracciare un’estetica pittorica e surreale, con un sistema di combattimento che mescola turni, ritmo e strategia, e una narrazione che non ha paura di essere ambiziosa. Sandfall Interactive non ha cercato il compromesso, né ha progettato un prodotto che “funzionasse” su carta. Ha realizzato un gioco che voleva giocare per primo, un gioco che aveva senso per loro. E proprio per questo ha un’identità.

È lo stesso spirito che ha portato Larian Studios a costruire Baldur’s Gate 3: non un GDR perfetto per tutti, ma uno radicalmente coerente con la sua visione. E guarda caso, il pubblico ha risposto. Perché quando un videogioco è figlio di una convinzione autentica, di una direzione chiara, di un desiderio reale di dire qualcosa, quel valore si sente. E non serve una mappa gigante o una grafica da benchmark per colpire nel segno. Basta avere il coraggio di essere sinceri.

Lo dimostrano anche altri titoli nati da visioni altrettanto forti, come Sea of Stars, che omaggia i JRPG classici senza cadere nella nostalgia sterile; Chained Echoes, capace di sorprendere con una qualità che molti tripla A si sognano; o Undertale, che con un’estetica minimale ha rivoluzionato il modo in cui i giocatori si relazionano ai propri nemici. Sono esperienze diverse, ma nate tutte da una scelta netta: fare qualcosa che avesse senso per chi lo stava creando, non per un algoritmo.

A screenshot of an enemy in Clair Obscur: Expedition 33

(Image credit: Sandfall Interactive)

Un problema culturale, non solo creativo

Il vero problema non è soltanto la mancanza di idee: è chi prende le decisioni. Oggi sono i dirigenti, gli investitori, i comitati di marketing e i reparti finanziari a decidere come devono essere fatti i videogiochi. E questi soggetti non ragionano per linguaggio, visione o esperienza, ma per cifre, previsioni e cicli trimestrali. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: giochi progettati per soddisfare obiettivi interni, per accontentare gli azionisti, per raggiungere KPI che nulla hanno a che fare con il gioco in sé. Non si costruisce più pensando a ciò che può colpire il giocatore, ma a ciò che può farlo restare incollato. Non si crea per amore del gioco, ma per evitare che qualcuno perda il proprio bonus.

Eppure basterebbe guardarsi indietro per capire quanto tutto questo sia miope. I giochi più importanti della storia non sono nati per seguire modelli di successo, ma per romperli.

Nintendo ha lanciato The Legend of Zelda in un’epoca in cui nessuno credeva nell’esplorazione libera, FromSoftware ha ridefinito il concetto stesso di difficoltà e gratificazione, Con Disco Elysium, ZA/UM ha realizzato un GDR isometrico privo di combattimenti tradizionali, interamente basato su dialoghi, psicologia e introspezione. Un’eresia per molti publisher, eppure un trionfo critico che ha lasciato un segno profondo nel genere.

Clair Obscur: Expedition 33

(Image credit: Sandfall Interactive / Microsoft)

Il futuro non appartiene a chi si adatta, ma a chi crede

La verità è che oggi vedere nascere un gioco come Clair Obscur: Expedition 33 è un evento raro. Non impossibile, ma raro. E il problema non è che manchino le idee o il talento, ma che tutto l’ambiente intorno allo sviluppo sembra fatto per scoraggiarli. Ogni scelta fuori standard è un rischio, ogni deviazione da ciò che “funziona” va giustificata con numeri e previsioni. E così, quando un gioco ha davvero qualcosa da dire, sembra quasi un errore di sistema.

È per questo che, quando qualcuno riesce a fare un tripla A ambizioso senza annacquarlo, la cosa colpisce così tanto. Metaphor: ReFantazio, ad esempio, nasce da un team con una forte identità - lo stesso dietro Persona 3, 4 e 5 - e nonostante sia una grande produzione, porta avanti un progetto nuovo, fuori dai brand storici, con una direzione chiara e temi forti. È un gioco che parla apertamente di potere, disuguaglianza e trasformazione sociale. Eppure, proprio per questo, sembra quasi una mosca bianca. Non un segnale di rivoluzione, ma una rara concessione.

I giochi che osano davvero - che si prendono il tempo di costruire un’identità, che non cercano di piacere a tutti, ma solo a chi vogliono parlare - oggi fanno rumore perché sono pochi. Non dovrebbero. Dovrebbero essere la regola, non l’eccezione.

Finché saranno visti come un pericolo e non come una strada possibile, l’industria resterà ferma. Sarà sempre piena di contenuti, ma povera di idee. E continueremo ad aspettare il prossimo gioco “diverso”, quando dovremmo chiederci perché non ce ne sono molti di più.

Nato nel 1995 e cresciuto da due genitori nerd, non poteva che essere orientato fin dalla tenera età verso un mondo fatto di videogiochi e nuove tecnologie. Fin da piccolo ha sempre esplorato computer e gadget di ogni tipo, facendo crescere insieme a lui le sue passioni. Dopo aver completato gli studi, ha lavorato con diverse realtà editoriali, cercando sempre di trasmettere qualcosa in più oltre alla semplice informazione. Amante del cioccolato fondente, continua a esplorare nuove frontiere digitali, mantenendo sempre viva la sua curiosità e la sua dedizione al settore.