Un quarto della Gen Z pensa che l'IA sia già cosciente, complice un balzo record nel quoziente intellettivo

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(Immagine:: Shutterstock)

In meno di un anno, i modelli IA sono passati dal barcollare con forme geometriche a ottenere risultati da “superdotati”. L’ultimo modello di OpenAI, chiamato o3, ha ottenuto un IQ di 136 al test Mensa norvegese - un punteggio superiore al 98% della popolazione umana. Non male per quello che, a conti fatti, è ancora un “completatore automatico” potenziato.

L’impennata è tale da spingere molti a immaginare scenari da Skynet. Secondo un sondaggio condotto da EduBirdie, un quarto della Gen Z crede che l’IA sia già consapevole di sé, e più della metà ritiene che lo diventerà presto, magari chiedendo anche il diritto di voto.

Tuttavia, ci sono delle precisazioni importanti da fare sul test. Il Mensa norvegese è pubblico, il che significa che potrebbe essere stato incluso nei dati di addestramento del modello. Per questo, il team di MaximumTruth.org ha sviluppato un test equivalente ma completamente offline e impossibile da “memorizzare” in fase di training. Su questo test, o3 ha ottenuto un punteggio di 116 — comunque molto alto, pari al 15% più intelligente della popolazione umana. In termini pratici: tra un brillante studente universitario e uno che vince troppo spesso ai quiz del pub.

Per fare un confronto, un anno fa nessun modello superava quota 90. A maggio dello scorso anno, gli algoritmi faticavano con semplici rotazioni di triangoli. Ora, o3 viaggia sulla parte destra della curva di Gauss, accanto agli umani più brillanti. E non è solo. Claude è salito. Gemini è arrivato ai 90. Persino GPT-4o, il modello standard di ChatGPT, è solo pochi punti sotto o3.

La vera differenza non è solo nei punteggi, ma nella velocità di miglioramento. Questi sistemi non apprendono come gli esseri umani, ma come il software: con aggiornamenti, patch e rilasci continui. Per una generazione cresciuta con la tecnologia, è un tipo di evoluzione che può essere affascinante, ma anche un po’ inquietante.

La coscienza però è un'altra cosa

Per una generazione cresciuta con Google come bussola, Siri in tasca e Alexa sullo scaffale, il concetto di "intelligenza artificiale" non coincide più con la sua definizione tecnica. Se sei diventato adulto durante una pandemia, in un mondo in cui le conversazioni avvenivano perlopiù dietro uno schermo, un assistente virtuale non sembra poi così diverso da una lezione su Zoom.

Forse non stupisce quindi che, secondo EduBirdie, quasi il 70% della Gen Z dica “per favore” e “grazie” ai chatbot. Due terzi li usano regolarmente per comunicazioni lavorative, il 40% per scrivere e-mail, un quarto per “addolcire” risposte imbarazzanti su Slack, e quasi uno su cinque per condividere dati sensibili, come contratti o dettagli personali di colleghi.

Molti si affidano all’IA anche in ambito sociale: per chiedere un giorno libero, per dire di no senza colpe, o per sfogarsi su problemi lavorativi (uno su otto lo fa già). Uno su sei l’ha usata come terapeuta. Se ti affidi a un’intelligenza artificiale con questa frequenza, o la trovi abbastanza coinvolgente da trattarla come un’amica (26%) – o addirittura come un partner romantico (6%) – allora l’idea che sia cosciente smette di sembrare così assurda.

Più interagisci con qualcosa come fosse una persona, più quella cosa inizia a sembrarlo: risponde, si ricorda, imita l’empatia. E ora che l’intelligenza artificiale diventa sempre più brillante, le domande filosofiche si moltiplicano. Ma attenzione: intelligenza non è coscienza. Un punteggio altissimo in un test logico non significa consapevolezza. Puoi anche ottenere un 160 di QI e restare comunque un tostapane, se i tuoi circuiti sono progettati per quello.

Un’IA non “pensa” nel senso umano del termine, ma risolve problemi con logiche predefinite. Potresti dire che non siamo poi così diversi, solo che io sono fatto di carne e non di silicio… ma questo mi ferirebbe. Per fortuna, nessuna IA attuale può provare emozioni – e quindi, niente cuore da spezzare.

Forse un giorno tutto questo cambierà, magari anche prima di quanto immaginiamo. Personalmente, ne dubito, ma sono disposto a cambiare idea. Capisco la tentazione di credere che l’IA ti capisca davvero, soprattutto quando ti risponde con gentilezza alle tre di notte, mentre ti confidi come con un amico. È più facile credere a un’empatia simulata che ricordarsi di stare parlando con un sistema addestrato sull’internet degli sfoghi.

Forse siamo vicini a una coscienza artificiale. O forse stiamo solo umanizzando calcolatrici molto sofisticate. In ogni caso, non confidare all’IA segreti che non vuoi vengano usati per addestrarne una ancora più avanzata.

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Nato nel 1995 e cresciuto da due genitori nerd, non poteva che essere orientato fin dalla tenera età verso un mondo fatto di videogiochi e nuove tecnologie. Fin da piccolo ha sempre esplorato computer e gadget di ogni tipo, facendo crescere insieme a lui le sue passioni. Dopo aver completato gli studi, ha lavorato con diverse realtà editoriali, cercando sempre di trasmettere qualcosa in più oltre alla semplice informazione. Amante del cioccolato fondente, continua a esplorare nuove frontiere digitali, mantenendo sempre viva la sua curiosità e la sua dedizione al settore.