Lo spot anti-pirateria era stupido, lo dice anche la Scienza

Pirates
(Image credit: Pirates)

Mettiamo le mani avanti: Sappiamo che la pirateria è una cosa seria e pensiamo che sul lungo termine possa danneggiare l’industria del software, influendo in particolar modo sulle piccole software house che vedono ridotti i loro introiti, mettendo addirittura a rischio la loro stessa esistenza. 

Il fenomeno è nato negli anni 80, con lo scambio brevi manu dei floppy, più che altro tra amici e parenti. La parte del leone la facevano negozi e distributori, che avevano accesso ai floppy dei software originali e potevano (e lo facevano davvero) effettuare copie da vendere sottocosto agli utenti, principalmente privati. Il software pirata era piuttosto diffuso anche nelle aziende, presumibilmente per via dei costi quasi proibitivi delle licenze dell’epoca.

Ricordiamo a tal proposito, la nascita a livello internazionale della BSA (Business Software Alliance), un'associazione di produttori di software che aveva come scopo (tra gli altri) la persecuzione delle violazioni di copyright software da parte delle aziende. A tutti gli effetti, prima della grande diffusione di Internet alla fine degli anni 90, non era esattamente semplicissimo acquistare del software pirata; inoltre, procurarselo era indice di una certa consapevolezza nel compiere un atto doloso.

All’epoca gli utenti più evoluti potevano anche scambiare i loro file, legali o meno, tramite le BBS, delle piccole reti a cui ci si poteva collegare tramite modem o altre connessioni primordiali per chattare, lasciare messaggi su bacheche virtuali e condividere software freeware e shareware. Le BBS venivano gestite da amatori, certamente consapevoli della loro responsabilità sulla presenza di software pirata nei loro computer e pertanto ne scoraggiavano la presenza, fino a vietare completamente l’accesso ai presunti pirati.

Nonostante ciò, qualcuno ricorderà forse l’Italian Crackdown del 1994, una serie di sequestri preventivi a carico di decine di gestori di BBS che vennero privati illimitatamente dei loro sistemi, ottenendo in cambio una denuncia. 

Quel caso fu clamoroso nel nostro paese perché a fronte di un nulla di fatto sul contrasto alla pirateria, risvegliò le coscienze degli Italiani riguardo al fenomeno stesso. Fino ad allora la parola pirateria era conosciuta solo da pochi utilizzatori di sistemi informatici, ma venne sdoganata verso il grande pubblico dopo che i telegiornali parlarono per settimane del caso. Questo ovviamente non fece terminare il fenomeno, che nel tempo stava mutando, diventando ancora più prolifico. Anzi probabilmente proprio i notiziari dell'epoca spinsero alcuni, o molti, a esplorare la pirateria come risorsa. 

L’arrivo sul mercato di masterizzatori CD prima e DVD poi, permise ai pirati di lavorare in grande scala alla copia di supporti ottici, mentre Internet entrava inesorabilmente nelle case degli Italiani e così la possibilità di scaricare file audio e video con una semplicità mai vista in precedenza. 

Sono i tempi di Napster, la prima applicazione di condivisione file che ottenne un successo mondiale, con milioni di utenti attivi che si scambiavano file musicali. 

Siamo agli inizi degli anni 2000 e in quel periodo nacquero alcune delle più controverse campagne antipirateria che la storia possa ricordare, non solo nel seppur rilevante campo del software, quanto in quello dei supporti audiovisivi, un mercato divenuto anch’esso estremamente significativo con il passaggio dalle videocassette ai DVD. Molti ricorderanno lo spot dove si diceva "non ruberesti un'auto".  Lo trovate qui sotto.

Di comunicazioni simili ce ne sono state molte, e nessuna, proprio nessuna, è servita a qualcosa. Le industrie del software, della musica e del cinema hanno investito milioni di euro in campagne di comunicazione fallimentari.   

Il mese scorso è stato pubblicato un nuovo studio della francese ESSCA School of Management, che rivela perché gli spot antipirateria non hanno avuto grande successo nel reprimere il fenomeno della pirateria. Sì, sono "scoperte" che rivelano ciò che già sapevamo ma, come sempre, una cosa è capirlo a intuito e un'altra cosa e avere il sostegno della ricerca scientifica. 

I professori di economia e finanza Luc Meunier e Gilles Grolleau raccontano come negli spot venivano presentati diversi concetti utili contro la pirateria. E mentre alcuni erano abbastanza significativi, altri lo erano in misura molto minore. I produttori degli spot hanno portato alcuni argomenti validi, tra cui il rischio di venire “pizzicati” dalla legge e la possibilità concreta di infettare il proprio sistema con virus e malware, ad altri molto meno efficaci, biasimando la scarsa qualità video o arrivando addirittura a far leva sui sentimenti degli attori. 

Per questo motivo, ci viene spiegato dai professori, gli argomenti più forti venivano in un certo senso diluiti da quelli più deboli, rendendo la campagna stessa molto meno efficace di quanto si desiderasse.

Avete presente lo spot “La pirateria è un reato”? Il filmato era presente come introduzione in moltissimi DVD degli anni 2000, e metteva in evidenza come la copia di un film fosse paragonabile a rubare un DVD in un negozio o addirittura al furto d’auto e alla rapina, reati certamente più gravi. 

Questa forzatura al limite dell’assurdo è probabilmente una delle ragioni per cui lo spot non è mai stato preso molto seriamente dagli utenti e anzi, ne nacquero parodie e prese in giro di ogni tipo. 

Secondo gli studiosi poi, anche divulgare al pubblico i grandi numeri legati alle perdite economiche o di posti di lavoro dovuti alla pirateria non sembra essere stata una strategia particolarmente efficace. 

Il pubblico, difficilmente si sente legato a dei numeri che fatica a visualizzare o comprendere e soprattutto che non percepisce in qualche modo legati alla propria vita. Infine, sembra piuttosto difficile provare empatia per qualche azienda multimiliardaria che sta perdendo spiccioli per aver venduto una copia in meno, e apparentemente nemmeno questo argomento si presta bene a far breccia nelle coscienze dei pirati.

I professori ritengono che l’approccio corretto delle campagne dovrebbe essere maggiormente orientato all’utente finale, spiegando, in maniera semplice e con poche e valide buone ragioni, perché ognuno di noi non dovrebbe entrare a far parte del mondo della pirateria. Sarà davvero questo il metodo giusto per affrontare il problema?